Future Woman

 

di Enrico di Stefano

 


Come dice un antico adàgio transalpino, Cherchez la femme… Già perché una delle spinte più potenti alle azioni degli uomini – checché se ne possa dire – resta il rapporto con quel “gentil sesso” che grazie al Cielo non passa mai di moda.

E la fantascienza? Direte voi… Che c’entra? C’entra, c’entra tranquilli e per un più che valido motivo.

Il nostro amato genere, tranne quando si concede digressioni nell’Ucronia o va in ferie nell’Ottocentesco Steampunk, è proiettato nel futuro. L’innovazione, l’evoluzione, la trasformazione sono i terreni in cui si muove preferibilmente. E quale gruppo umano, negli ultimi cento anni, ha saputo imprimere con maggior vigore una svolta all’evoluzione della società?

Non ci sono dubbi: sono state le donne.

Ed hanno cominciato a far sentire il loro peso da subito nella Science Fiction… Quando questa ancora non si chiamava Science Fiction.

 

La fantascienza propriamente detta, ovvero quella che parte da un’ardita ipotesi scientifica, comincia a muovere i primi passi nel 1818 con il Frankenstein di Mary Shelley. L’autrice inglese è per certi versi la madrina del genere e in modo meno casuale di quanto venga comunemente ritenuto. A lei si deve, infatti, un inquietante romanzo dal titolo L’Ultimo Uomo, apparso nel 1826. Vi si ipotizza la sparizione del genere umano, sterminato da un’epidemia. In tal modo fissa un’idea archetipica per la SF che successivamente ripropone un simile scenario in celeberrimi romanzi, tra i quali non possiamo non ricordare I am a Legend di Richard Matheson.

Una donna quindi dà avvio a tutto, ma siamo ancora nella prima metà del XIX secolo e le battaglie femministe – nonostante le rivendicazioni tardo settecentesche di Olympe de Gouges – sono ancora di là da venire e per vedere i primi concreti risultati sulla strada dell’emancipazione, ottenuti da  Emmeline Pankhurst, bisogna attendere il 1894.

Troppo preso dai gravosi compiti imposti dai doveri domestici, il “gentil sesso” deve mettersi quasi subito da parte per lasciare campo libero ai signori uomini… Che infatti gettano le fondamenta nell’Ottocento di quello straordinario edificio culturale che prende il nome di Science Fiction.

 

La donna, uscita dal portone o forse mai entrata davvero, rientra dalla finestra quando nella prima metà del Novecento comincia ad abbellire con le sue forme divine le copertine dei pulp. Ghermita da ripugnanti alieni solo vagamente umanoidi o avvinghiata al muscoloso eroe di turno, vede il suo ruolo ridotto a quello di gradevole tappezzeria.

In alcuni casi le viene dato molto spazio, come a Maria, interpretata da Brigitte Helm nel Metropolis di Fritz Lang. Il personaggio, cui dà corpo e anima la straordinaria attrice tedesca, rappresenta il fulcro della storia, e molto deve all’impressionante sex appeal della diva.  La predominanza dell’interprete femminile è comune nel cinema muto degli anni ’20, ma risulta del tutto anomalo nell’universo della SF, dominato da figure maschili.

Solo pochi anni dopo, corre l’anno 1934, Alex Raymond dà alle stampe uno dei più riusciti fumetti di fantascienza mai realizzati: Flash Gordon. L’omonimo protagonista é il prototipo del bravo ragazzone americano, tutto muscoli e sani principi. Un simile campione (ma non fraintendetemi, il giovanotto risulta tutt’altro che banale) non può essere single… Si ritrova infatti una fidanzata, Dale Arden, una sorta di top model ante litteram che incanta con le sue mise da odalisca.

Ancora tappezzeria quindi… Di lusso, ma pur sempre tappezzeria.

Nello stesso anno si verifica un avvenimento che sfugge ai più, ma rappresenta una svolta nella storia della fantascienza al femminile: una ragazza poco più che ventenne pubblica il suo primo racconto. Non ci sarebbe niente di particolare se la fanciulla non si chiamasse Mary Alice Norton, in arte André Norton. Con lei le donne tornano a dare un contributo intellettuale, oltre che fisico. La carriera della Norton prende avvio negli anni ’40 e decolla nel decennio successivo con una serie di eccellenti romanzi in cui la componente avventurosa la fa da padrona. La facilità di scrittura dell’autrice americana regala per decenni un profluvio di opere godibilissime che, nel 1983, (prima di Clarke, Asimov e Bradbury, tanto per capirci) le valgono l’ambito titolo di Gran Master.

L’uso del nome maschile, assunto per non disorientare in partenza i potenziali lettori, non è un espediente utilizzato esclusivamente dalla Norton… Qualche anno dopo un’altra geniale scrittrice, Alice Bradley Sheldon, se ne serve per mantenere un “anonimato” coltivato con religiosa dedizione. Come l’abbiamo conosciuta? Con il bizzarro nome (è quello di una marca di marmellate inglesi) di James Tiptree Jr.

Due donne davvero straordinarie e, in valore assoluto, due delle migliori menti creative mai espresse dalla SF internazionale.

Ma la presenza scenica del corpo femminile rimane troppo prepotente perché possa essere contenuta… Persino negli anni del femminismo ruggente la fantascienza diventa un’ulteriore terreno sul quale avanza la liberazione sessuale.

E nel pieno degli anni ’60 infatti che esplode il fenomeno Barbarella. All’inizio – siamo nel 1962 – è un fumetto creato da Jean-Claude Forest che lo pubblica sulla rivista V-Magazine. Già così ottiene un discreto successo grazie alle situazioni piccanti in cui è coinvolta, ma diventa culto in modo definitivo nel 1968 quando Roger Vadim gira la trasposizione cinematografica della storia. Ad interpretare l’eroina spaziale chiama la moglie del momento, la bellissima yankee Jane Fonda. Quest’ultima è assai credibile nel dare corpo all’affascinante, generosa e sbadata viaggiatrice cosmica. Ma, al di là dell’interpretazione, a lasciare il segno sono i succinti abitini, che poco o nulla lasciano all’immaginazione, indossati dalla giovane americana.

Barbarella è solo la più famosa delle eroine fantascientifiche nate negli anni ’60 e destinate a lasciare un marchio indelebile nella storia del fumetto e nell’immaginario dei lettori. Soprattutto sceneggiatori e disegnatori di  Francia e Italia danno un enorme contributo, creando Laureline, Jodelle e Saga al di là delle Alpi; Alika, Uranella, Selene e Gesebel nel bel paese. Un significativo, seppur isolato, contributo arriva dal Regno Unito con Scarth di Jo Adams & Luis Roca che proprio allo scadere del decennio si mostra nel primo nudo integrale oltremanica.

E in televisione? La palma di personaggio femminile di spicco va assegnata a Uhura, uno dei membri del ponte di comando dell’Enterprise. L’addetta alle comunicazioni, interpretata benissimo da Nichelle Nichols, ha numerosi elementi che la rendono peculiare ed innovativa, ma tre spiccano: ha potere di comando, è nera e – udite udite – è africana e non statunitense! Ma bisogna dire che, grazie al genio di Gene Roddenberry, tutta la saga di Star Trek risulta rivoluzionaria e talvolta eversiva. L’attrice afroamericana ha carattere da vendere ed una naturale regalità esaltata da una indiscutibile prestanza fisica. Ne sono testimoni le numerose foto di nudo che la consacrano  pin up di culto prima che attrice di successo.

 

Gli anni ’70 sdoganano il sesso nel mondo occidentale… Nel senso che si comincia a parlare apertamente di ciò a cui prima si alludeva e basta. La fantascienza vive uno dei suoi decenni migliori e non può sfuggire alla marea montante della liberalizzazione dei costumi. La censura dà segni di cedimento e persino nelle sale cinematografiche del nostro cattolicissimo paese fanno capolino i primi seni al vento. E così nel 1974 Flash Gordon diventa Flesh Gordon… Si tratta di un gioco di parole basato sulla pressoché identica pronuncia che in inglese hanno le parole flash (lampo) e flesh (carne, nell’accezione sensuale del termine).  

Il film, diretto da Michael Bienveniste e Howard Ziehm è più buffo che erotico, ma ha il merito di mischiare situazioni sexy con astronavi. E’ vero che il connubio era già stato celebrato ai tempi del piccolo capolavoro di Vadim, ma allora la confezione era risultata molto più elegante e non si era mai sfiorato il trash.

Perché citiamo il film? Perché emblematico di quel clima liberatorio che pervade gli anni ’70, quelli che offrono un tripudio di bellezze femminili sugli schermi, anche quelli piccolini dei televisori di casa dato che ormai si accetta l’idea che i bambini e gli adolescenti possano “tollerare” la visione di belle fanciulle non troppo vestite.

Queste ultime sono rappresentate al meglio dalle ragazze in servizio presso Base Luna, uno dei luoghi simbolo della serie TV britannica U.F.O. prodotta dal grande Jerry Anderson ed andata in onda a partire dal settembre 1970. A capitanarle c’è la bella Tenente Ellis, interpretata da Gabrielle Drake. Se Star Trek ha ampiamente mostrato le gambe della componente femminile della flotta stellare, grazie all’estensivo uso di minigonne ottimamente portate, nel telefilm inglese si preferisce ricorrere alle tutine aderenti. Oltre alla sopra citata comandante di Base Luna, è la mora Ayshea Brough a dare un’ulteriore tocco di seduzione alla serie interpretando il Tenente Jhonson. Stilista della serie è Sylvia Anderson, moglie e principale collaboratrice del produttore.

La tedesca Christiane Krüger e l’inglese Judy Geeson interpretano rispettivamente Octavia e Fulvia nella serie anglo-tedesca Star Maidens che in 13 episodi da trenta minuti, trasmessi in mezza Europa nel 1976, raccontano le peripezie di due umani catturati da extraterrestri che li deportano sul loro pianeta natale, Medusa, dove vige una rigorosa supremazia del genere femminile. Le scelte della produzione per quanto riguarda l’abbigliamento delle protagoniste riguardano soprattutto gli spacchi sapientemente disposti in abiti per il resto piuttosto castigati. Decisamente audaci, invece, le uniformi delle guerriere: hot pants ridottissimi e a vita bassa con generosa esposizione di ombelichi e addominali da urlo.

 

La bellissima e sfortunata playmate Dorothy Stratten (1960 - 1980) diviene sul finire del 1979 la più convincente icona della bellezza femminile proiettata nel futuro interpretando Miss Cosmos in Cruise Ship to the Stars, un episodio della serie tv Buck Rogers in the 25th Century. Esce a testa alta dal confronto con la conturbante e discinta Pamela Hensley (Principessa Ardala) e con la magnifica, ma troppo rassicurante, Erin Gray (Colonnello Wilma Deering). L’anno successivo viene chiamata a ricoprire il ruolo di protagonista in Galaxina, lungometraggio del regista William Sachs, nel quale presta il fisico mozzafiato ad un androide femmina. Ma il destino avverso la conduce a morte violenta ad appena vent’anni e le impedisce di dare corpo all’archetipo di eroina del futuro in un decennio che vede il campo maschile dominato dall’ingombrante fisicità di Arnold Scwarzenegger.

L’unica concorrente vera a propria, la danese Sybill Danning, non emerge dalla “palude” dei B – Movie e non riesce ad assurgere al rango di vera e propria diva, pur finendo con gli anni per diventare un’artista di culto.

Qui bisogna aprire una parentesi. La Science Fiction, soprattutto quella sul grande schermo, ha quasi sempre avuto un interprete ideale, un attore capace di essere credibile negli scenari avveniristici che il genere imponeva. Negli anni ’60 – ’70 sicuramente lo è stato Charlton Heston che negli ’80 – ’90 ha passato il testimone ad Arnold Schwarzenegger che è divenuto un’icona dallo straordinario peso culturale. Ma non c’è stata un’attrice in grado di imprimere un marchio indelebile nel cinema di fantascienza… Almeno fino all’avvento di una bellissima ex modella ucraina. Ma non anticipiamo troppo.

 

Da quanto appena esposto è facile dedurre che anche negli anni ’70, quelli in cui il movimento femminista è stato più incisivo, l’immagine della donna nella science fiction è stata comunque legata ad una imprescindibile avvenenza.

E’ vero che non si sono più viste le bambole stupidotte che popolavano il cinema di fantascienza degli anni ’50, come la Altaira interpretata da Anne Francis nel sia pur magnifico Forbidden Planet (1956) di Fred McLeod Wilcox, ma alle gambe chilometriche ed alla “terna magica” 90 60 90 proprio non si poteva rinunciare.

 

Ma, direte voi, e le scrittrici? Le donne davano solo il fisico alla SF? Ovviamente no! Mentre James Teptree sfornava alcune delle sue opere migliori, si affermavano prepotentemente le geniali personalità delle statunitensi Ursula Le Guin e Marion Zimmer Bradley. La prima, almeno per quanto riguarda la fantascienza, aveva dato il meglio di sé a cavallo degli anni ’60 e ’70 con l’ambizioso Ciclo di Ecumene (che comunque avrà un epilogo nel 2000 con il romanzo La salvezza di Aka) ma la seconda era nel pieno dello sviluppo del Ciclo di Darkover, una saga fantascientifica dai risvolti fantasy che si è sviluppata dal 1962 fino alla morte dell’autrice nel 1999 (senza contare il romanzo postumo La caduta di Neskaya, scritto in collaborazione con Deborah J. Ross).

Forse la Zimmer Bradley è stata in assoluto la scrittrice di fantascienza più autorevole in assoluto. Non solo per l’indiscutibile qualità letteraria delle sue opere, ma anche perché in essi l’elemento fantascientifico viene felicemente coniugato con la componente fantasy. Ciò ha dato all’intero “corpus bradleyano” uno straordinario successo di vendite.

Archiviati gli anni ’70 con le loro promesse non mantenute, si arriva agli anni ’80 quelli in cui, per capirci, si afferma prepotentemente quel culto dell’immagine che ancora oggi non sembra dare segni di cedimento.

Nella SF delle immagini – quella del fumetto, del cinema e delle serie televisive – appaiono donne sempre più belle e seducenti. Il pittore Paolo Eleutieri Serpieri crea nel 1985 un personaggio destinato ad entrare nella leggenda del fumetto, Druuna. Definirla vistosa è riduttivo: fisico prepotente, fondoschiena spettacolare, seno grosso e sodo, gambe piene e tornite, perfetti lineamenti mediterranei. A rendere esplosivo il cocktail contribuisce la assoluta disponibilità sessuale del personaggio che ne corso delle sue avventure – e in numerose tavole extra – si accoppia con maschi umani, mostri vari e non disdegna le diversioni saffiche. Citando Peter Hamilton potremmo dire: “… la sua idea di buon gusto è una principessa troia? Molto maschile…” Ed effettivamente Druuna è l’incarnazione – sia pur cartacea – di una tipica ossessione dei maschi umani, la femmina procace e sessualmente vorace. Conturbante, ma in modo assai diverso, è uno dei membri del ponte di comando della Enterprise D della serie Star Trek: The Next Generation, trasmessa negli Stati Uniti a partire dal 1987. Mi riferisco a Tasha Yar, ufficiale della sicurezza interpretato da Denise Crosby. Tasha è vestitissima, il più delle volte, indossando la castigata uniforme con i pantaloni tanto lontana dalle minigonne con le quali Nichelle Nichols deliziava i fan della generazione precedente. Eppure è tremendamente sexy… Più di altre ben più discinte protagoniste delle serie successive. Come mai, vi chiederete. Denise Crosby possiede un appeal non comune che le ha consentito di posare su Playboy facendo un figurone e di interpretare in modo assai convincente ruoli da dark lady. Per avere un assaggio del suo “impatto visivo” consigliamo di ammirarla nei quattro minuti scarsi del video dei Black Sabbath No Stranger to Love.

Totalmente senza veli si presenta invece Matilda May in Space Vampires (titolo originale Lifeforce), film diretto nel 1985 da Tobe Hopper. Il corpo dell’allora ventenne attrice inglese appare in tutta la sua maestosa nudità… Non ci sono commenti da fare, si può solo constatare lo straordinario potenziale seduttivo della vampira extraterrestre al centro della storia.

Così trascorrono gli anni ’80, accompagnati dalla colonna sonora dei successi di una band inglese i cui video rappresentano un’apologia dell’avvenenza muliebre… Ne riparleremo più avanti.

 

Il quarto di secolo successivo, quello che ci porta ai nostri giorni, assiste al trionfo della bellezza femminile sul pensiero femminile nella Science Fiction… E’ forse  triste affermarlo, ma è così. A dispetto della pregevole produzione di eccellenti scrittrici, tra cui spicca quella della grande Octavia Butler , è ancora il corpo a farla da padrone.

Nel fumetto di fantascienza e fantasy gli autori europei e giapponesi si scatenano nel disegnare maggiorate fisiche. Dal seno grosso della Cybersix di Carlos Trillo & Carlos Meglia si passa a quello enorme della Ines di Celestino Pes & Roberto Baldazzini.

E potremmo citare Lorna di Alfonso Azpiri, la Falka di Juan Zanotto o la prima versione “tutta tette” della May Frayn di Medda, Serra & Vigna.

Attenzione… Si tratta di fumetti di prim’ordine, vere opere d’arte, ma scritti e disegnati da uomini. E si sa che noi maschietti non riusciamo facilmente a liberarci dai nostri fantasmi erotici.

Il gruppo britannico al quale si accennava prima è quello dei Duran Duran. Già il loro nome è una citazione fantascientifica, richiamando quello del vilain antagonista della Barbarella originale. Ma nel 1997 appaiono in un video che promuove il singolo Electric Barbarella. Diretto dalla fotografa tedesca (finalmente una donna) Ellen von Unwerth, racconta le vicissitudini del gruppo alle prese con un robot supersexy interpretato dalla top model americana Myka Dunkle. Inutile dire che l’androide si ribella – più che un classico, uno stereotipo –  ed i cinque giovanotti inglesi hanno la peggio.

Nello stesso anno un’altra top model, l’ucraina di cui si diceva prima, comincia a costruirsi un posto nella storia del Cinema di Fantascienza. Si tratta di Milla Jovovich che, appunto nel 1997, interpreta il Quinto Elemento, film diretto da Luc Besson. La giovane attrice riesce a diventare “donna immagine” della SF sul grande schermo interpretando tra il 2002 ed il 2007 i primi tre film della serie Resident Evil e nel 2006 Ultraviolet, per la regia di Kurt Wimmer. Bisogna dire che si tratta di cinema d’azione più che di idee, ma è quello che passa il convento, il più delle volte, all’inizio del millennio.

La Jovovich è bella proprio come e quanto devono esserlo (l’imperativo si direbbe categorico) i personaggi femminili dello schermo.

Tra questi va ricordato Numero Sei, il cylone umanoide protagonista della serie Battlestar Galactica (2004 – 2009) interpretato dalla top model (un’altra) canadese Tricia Helfer.

Il metro e settantanove esaltato da vertiginosi tacchi a spillo e gli abitini rossi, dipinti sul corpo più che indossati, rappresentano il suo marchio di fabbrica. Sono anche lo strumento ideale per scimunire i fan adoranti ed il povero scienziato Gaius Baltar, interpretato da un James Callis bravissimo nel restare a bocca aperta una volta ogni tre inquadrature.

Per la verità c’era già stata sul finire del millennio una bellona “numerata” nella SF televisiva. Si tratta di Sette di Nove, sventola Borg interpretata da Jeri Rayan. Il personaggio è molto interessante e di peso in Star Trek: Voyager, ma tutti i telespettatori di sesso maschile ne ricordano quasi esclusivamente l’abbigliamento, costituito da tutine attillate che si direbbero messe in posa con la vernice a spruzzo.

 

Siamo a questo? A numerare le bellezze? Fossi una femminista me ne preoccuperei… Da appassionato mi limito ad ammirare e a  rifletterci su.

Tanto deve la fantascienza alla penna di grandi scrittrici e geniali sceneggiatrici (tra tutte citiamo D.C. Fontana, tra le autrici della Serie Classica di Star Trek) ma il corpo femminile sembra travolgere ogni cosa come un mare in tempesta.

Ultimo esempio è il video dallo scenario fantascientifico On a Mission (2010) della cantante australiana Gabriella Cilmi. La ragazza balla bene e canta meglio, ma si finisce per concentrarsi sulle sue gambe, notevoli e generosamente esposte… Sic!

E allora? Non ci resta che prendere atto della situazione e riandare con la memoria ai fatidici anni ’70, quando i francesi Rockets ottennero un successo mondiale con una hit destinata a fare epoca: Future Woman. Il gruppo, la cui immagine è indiscutibilmente legata alla fantascienza, aveva uno dei punti di forza nella mimica facciale del cantante Christian Le Bartz. Ebbene, in quegli anni venne diffusa una foto pubblicitaria che vi riproponiamo e che vede i cinque musicisti in compagnia di una modella nuda. I giovanotti mantengono eroicamente un contegno inappuntabile… Tutti, tranne il frontman che per un volta ha un buon motivo per sgranare gli occhi.