The Real Steampunk

 

di Enrico Di Stefano

 

Per una volta permettetemi di cedere alla tentazione dell’autoreferenzialità e di “citarmi addosso” proponendo una personale definizione dello Steampunk. Ricorro, quindi, a quanto ho sostenuto nel numero precedente: “è un genere ambientato in epoche del passato inserite in linee temporali alternative alla nostra”; in modo particolare “racconta un XIX secolo molto più tecnologizato di quello che hanno vissuto i nostri bisnonni. Quando si parla di tecnologia […] non si fa riferimento all’elettronica e all’informatica. E’ il vapore a farla da padrone”. Va da sé che la collocazione temporale è vittoriana, quindi va individuata nella seconda metà del XIX secolo. Con buoni risultati qualche autore si è spinto fino alla Grande Guerra (Scott Westerfeld, tra tutti), ma restando in questo caso entro lo scenario di una tarda Belle Epoque. Una curiosa eccezione è il fumetto Dust di Paolo Parente (esistente anche in versione board game) ambientato addirittura nel 1939, che mantiene le tipiche ambientazioni e il design caratteristico del genere pur ipotizzando l’uso di una fonte energetica di origine esotica e misteriosa.

Se in un trentennio lo Steampunk è divenuto uno dei caposaldi del macrogenere fantascientifico, lo deve alla “nobiltà” dei piccoli capolavori che lo hanno codificato: Le porte di Anubis (1983) di Tim Powers, Homumculus (1986) di James P. Blaylock, La macchina della realtà (1990) di Bruce Sterling & William Gibson, La trilogia Steampunk (1995) di Paul Di Filippo. Ben presto l’invenzione letteraria ha ispirato il Cinema con Wild Wild West (1999) di Barry Sonnenfeld e il Fumetto con La Lega degli Straordinari Gentlemen (1999) di Alan Moore (quest’ultimo trasposto per il grande schermo nel 2003 da Stephen Norrington). Autori di prim’ordine, quindi, che hanno dato l’avvio tra l’altro ad un vero e proprio fenomeno cosplay, visto l’enorme successo che i costumi steampunk style riscuotono alle convention di tutto il mondo. Il nostro paese non si è sottratto a tale suggestione estetica e il fandom italico si è fatto coinvolgere di buon grado in quella che ormai è una vera e propria moda.

Ma una domanda nasce tanto spontanea quanto, forse, inopportuna: i nostri bisnonni si sono davvero persi le meraviglie tecnologiche con cui romanzi, film e fumetti ci hanno deliziato? E se, invece, le avessero vissute? E’ possibile che il susseguirsi di poche generazioni sia stato sufficiente a cancellare ricordi che avrebbero dovuto marchiare a fuoco il nostro immaginario? Proviamo a rispondere analizzando il livello tecnologico effettivamente raggiunto durante la Belle Epoque.

 

Informatica

Le creazioni del grande matematico inglese Charles Babbage (Londra 1791 – Londra 1871) sono le vere protagoniste di La macchina della realtà, uno dei caposaldi del genere. Nell’invenzione letteraria lo sviluppo inarrestabile dell’informatica diventa il propulsore dell’assoluta superiorità dell’Impero Britannico nell’Ottocento. La Francia tenta di contrastare tale supremazia, ma con scarsa efficacia a causa dell’imperfezione delle macchine di cui dispone. Questo in letteratura.  E la realtà storica?

L’idea di realizzare un calcolatore programmabile condusse Babbage alla progettazione della  Macchina delle Differenze (1822). Capace di calcolare logaritmi e funzioni  trigonometriche, era predisposta per stampare i risultati. Il progetto originale prevedeva l’assemblaggio di circa 25.000 pezzi per un peso complessivo di diverse tonnellate.  L’apparato è stato ricostruito a Londra nel 1991 (utilizzando le tecniche costruttive del XIX secolo) presso il Museo delle Scienze. Nel 2000 è stata aggiunta una stampante. La replica esegue le varie operazioni con precisione assoluta, ma richiede un operatore addetto alla manovella che aziona il meccanismo.

Molto più avanzato era il progetto successivo dello scienziato britannico: la Macchina Analitica (1837), pensata allo scopo di realizzare un dispositivo più versatile. Venne concepita come un vero calcolatore automatico programmabile mediante schede perforate. Era previsto un motore a vapore azionante il complesso meccanismo, molto più grande e pesante del suo predecessore. Rimasta a livello di progetto, avrebbe dovuto funzionare mediante un programma scritto dalla matematica inglese Ada Byron Lovelace.

I contemporanei, con poche eccezioni come quella dell’italiano Luigi Menabrea, non riuscirono a capire le implicazioni delle idee del geniale studioso. Il governo britannico fece venire meno i finanziamenti che avrebbero consentito la realizzazione della macchina analitica, dopo avere investito nei progetti del geniale studioso oltre 17.000 sterline, sufficienti all’epoca per la costruzione di venti locomotive.

Veicoli

Gli scenari Steampunk, in terra, cielo e mare, sono percorsi da una moltitudine di veicoli, velivoli e imbarcazioni. Forse è questo il campo nel quale la finzione letteraria e la realtà si sono discostate di meno. Le locomotive del XIX secolo erano davvero formidabili e sono state il principale punto di contatto tra l’uomo della strada ed una tecnologia che stava stravolgendo il mondo. Tra le decine di modelli che hanno velocizzato le comunicazioni di un occidente rampante, spiccano le rapidissime francesi Outrance. Rappresentavano una sorta di evoluzione, compiuta nel 1877, delle inglesi Sturrock rispetto alle quali risultarono nettamente più stabili. In tal modo potevano affrontare le curve senza rallentare in modo significativo e giunsero ad offrire ai viaggiatori una sorta di alta velocità ante litteram.

Vennero anche realizzati veicoli per il trasporto urbano e per l’impiego agricolo, macchine interessanti ma scarsamente diffuse. Gli Omnibus, infatti, vennero utilizzati dalle nazioni più evolute, Inghilterra in testa, ed esclusivamente in ambito metropolitano. Nati nel XIX secolo, sopravvissero fino dopo la Prima Guerra Mondiale quando dovettero cedere il passo agli autobus spinti da propulsori più evoluti. Ne citiamo un paio in servizio nella capitale britannica: l’Enterprise, realizzato da Walter Hancock nel 1833 per la London and Paddington Steam Carriage Company e il Martha che, ancora nel 1923, trasportava passeggeri per la London General Onibus Company.

Camion e trattori a vapore furono utilizzati nei paesi più avanzati dal punto di vista industriale e agricolo. I primi prestarono servizio in numerosi esemplari in Inghilterra e vennero prodotti fino al 1938. Eccezionalmente, cento di questi veicoli furono prodotti nel 1950 su richiesta del governo argentino. Tra le ditte produttrici segnaliamo la britannica Yorkshire Patent Steam Wagon Co.

Lasciamo il regno della Regina Vittoria e attraversiamo l’oceano per andare a scoprire un’altra meraviglia dell’epoca del vapore: il carro armato. Non quello che conosciamo noi, a propulsione diesel o  benzina, ma un vero mezzo corazzato equipaggiato con caldaia e stantuffi. Per la verità questa categoria di macchine da guerra non è mai arrivata alla produzione in serie, ma non sono mancati i prototipi, tutti apparsi verso la fine della Grande Guerra. Ne ricordiamo tre, tutti americani. Il primo è lo Steam Tank, un carro lanciafiamme dal disegno simile a quello del britannico Mark I, realizzato dalla Stanley Motor Carriage Company nel 1918. Il secondo è lo Steam Wheel Tank, un veicolo corazzato su ruote, armato con un cannone da 75 mm, ispirato al tedesco Treffas Wagen, realizzato nel 1917 dalla Holt Manufacturing Company (oggi Caterpillar). In entrambi i casi non si tratta di progetti particolarmente originali, apparendo evidente la derivazione da equivalenti macchine europee. Il terzo, invece, merita particolare attenzione. Si tratta del Tracklayer CLB 75, una sorta di incrociatore terrestre dallo scafo affusolato, realizzato in due esemplari dalla californiana Best Tractor Company nel 1917. Tutte macchine ragguardevoli, ma ben lontane dai walker, i veicoli su zampe meccaniche, che popolano gli scenari Steampunk, ad esempio nel già citati Leviathan di Scott Westerfeld e Dust di Paolo Parente.

 

Velivoli

Dirigibili e aerei solcano i cieli nell’immaginario Steampunk e, soprattutto i primi, combattono autentiche battaglie aeree, come fossero corazzate volanti. Il prototipo di simili meraviglie è sicuramente l’Albatross, l’aeronave immaginata da Jules Verne e da questi posta ai comandi del tenebroso Robur nel romanzo Robur le Conquérant del 1886. Si tratta di un “più pesante dell’aria”, una sorta di elicottero multirotore a propulsione elettrica, la cui sagoma però è quella caratteristica del dirigibile.

Questo il punto di partenza. Gli scrittori di fantascienza del secolo successivo hanno immaginato una sterminata varietà di modelli, tanto inverosimili quanto affascinanti.

Ma come si volava nel vero XIX secolo?

Il grosso del lavoro lo hanno svolto i francesi. Nel 1852, Henri Giffard costruì il primo vero dirigibile. Si trattava di un’aeronave con un volume di 2500 m3 azionata da un motore a vapore da 3 HP che lo spingeva a 8 km/h. Ben più performante risultò nel 1884 La France, aeronave da 1900 m3 realizzata da Arthur Krebs e Charles Renard. Un motore elettrico (Verne fu profetico ancora una volta) alimentato da batterie pesanti ben 435 kg gli conferivano una velocità massima di 23 km/h.

L’aeroplano, invece, dovrebbe essere figlio del primo XX secolo… O no?

Forse no. La storia del “più pesante dell’aria”, a voler essere pignoli, comincia il 9 Ottobre del 1890. Un gigantesco pipistrello di legno e tela, davanti al quale mulinava un’enorme elica quadripala, si staccò dal suolo di Armainvilliers, ridente località de l’Ile de France, e svolazzò per una cinquantina di metri a circa 25 centimetri dal suolo. Ben poca cosa, nell’ottica odierna, ma fu il primo vero passo. L’incredibile macchina si chiamava Éole e la guidava il suo creatore, l’ingegnere autodidatta Clement Ader. Le soluzioni tecniche impiegate erano quelle che poteva offrire la tecnologia dell’epoca, ma non per questo meno ingegnose: il motore funzionava a vapore e, pur molto compatto, poteva erogare ben 20 HP; il controllo del volo non avveniva mediante alettoni, ma attraverso una deformazione controllata dei bordi alari.

 

Navi

Beh, qui potremmo sbizzarrirci. A quell’autentico leviatano che fu il Great Eastern l’infaticabile Jules Verne dedicò un bel romanzo, Una città galleggiante (1870). Il bastimento, varato in Inghilterra nel 1854, era monstre in tutto: 211 metri di lunghezza, 25 di larghezza e 32.000 tonnellate di stazza ne fecero per mezzo secolo la più grande imbarcazione mai costruita. Tanto da poter accogliere ben 4.000 passeggeri. La propulsione era affidata ad un elica, due ruote a pale (alte come palazzi) e, in caso di necessità, a ben sei alberi. Le macchine erogavano la bellezza di 8000 HP.

La stessa potenza era disponibile sulla corazzata italiana Duilio, varata nel 1876. Dare del visionario al progettista, Benedetto Brin, è addirittura riduttivo. La nave da battaglia era sbalorditiva in tutto. Con massa e dimensioni pari a metà di quelli del transatlantico britannico, ma con un apparato propulsivo sovradimensionato, era in grado di sfiorare i 20 nodi, come dimostrarono alcune prove in mare che lasciarono di stucco gli osservatori. Il calibro delle sue artiglierie principali, 450 mm, fu superato nel secolo successivo solo dai cannoni da 454 mm della giapponese Yamato e della gemella Musashi. La corazza in alcuni punti superava il mezzo metro. La nave, infine, possedeva un asso nella manica che poteva essere giocato in battaglia: racchiusa in un bacino allagabile a poppa, era ospitata una piccola torpediniera, la Clio, che veniva letteralmente “partorita” dalla nave madre. La silurante aumentava di molto il già notevole potenziale offensivo della “creatura” di Brin.

La comparsa dell’ammiraglia italiana causò un terremoto politico a livello internazionale e uno stizzito imbarazzo in Inghilterra. Un rapporto presentato alla Camera dei Deputati francese affermò che la Duilio era: “La più potente nave da guerra che l'arte navale abbia mai espresso". Il senatore americano Ward, a Washington, affermò che “La Duilio, da sola, potrebbe affondare l’intera flotta dell’Unione!”

La fine del XIX secolo, anche per via della reazione alla comparsa di un simile bastimento, vide una forsennata corsa agli armamenti con la comparsa di navi da battaglia sempre più poderose. Il culmine sembrò essere stato raggiunto con la comparsa della HMS Dreadnought, la capostipite delle corazzate monocalibro, nel 1906. Le due guerre mondiali che hanno insanguinato la prima metà del XX secolo hanno dimostrato la tremenda potenza di queste armi.

 

Sottomarini

La letteratura di Jules Verne nasceva, come gli studiosi ben sanno, da una robusta conoscenza dello sviluppo scientifico e tecnologico della seconda metà del XIX secolo. Diciamo che il grande scrittore era ben informato  e, basandosi sui dati disponibili, riusciva a “prevedere” dove ci avrebbe condotto la Seconda Rivoluzione Industriale.

Il Nautilus, ad esempio, sarebbe stato un’autentica meraviglia se fosse apparso nel 1870. Ma alcuni suoi più modesti cuginetti, nella realtà, avevano già cominciato ad affrontare la prova dell’acqua. Un po’ come maldestri ma promettenti anatroccoli anche se a spingerli, purtroppo, erano in genere le necessità belliche.

I pionieristici tentativi del sergente Ezra Lee che nel 1776 tentò con il suo Turtle di attaccare l’ammiraglia inglese Eagle durante la Guerra d’Indipendenza Americana, furono frustrati da un problema che rimase irrisolto per oltre un secolo: la mancanza di un sistema di propulsione efficiente. Dovendosi affidare al vigore di marinai che, in spazi angusti, azionavano pedali e manovelle non si poteva andare lontano. La Guerra Civile Americana vide coraggiosi e il più delle volte infruttuosi tentativi da parte di entrambi i contendenti. Ricordiamo due imbarcazioni su tutte: il confederato Hunley e l’unionista Intelligent Whale. Ma i troppi incidenti e la morte per annegamento di numerosi marinai sembravano rappresentare un ostacolo insormontabile. Gli americani, tuttavia, erano stati preceduti dal tedesco Wilhelm Bauer che nel 1850 aveva realizzato il Brandtaucher. Si trattava di una imbarcazione abbastanza efficiente tanto da essere “copiata” qualche anno dopo dalla Marina Imperiale Russa. Tra le buone caratteristiche spiccava la possibilità di evacuare il mezzo in caso di affondamento.

La propulsione a vapore fu applicata al Resurgam, un sottomarino realizzato nel 1879 dal reverendo britannico George W. Garret. Purtroppo il prototipo affondò l’anno seguente durante un’operazione di traino. L’intraprendente ecclesiastico non si perse d’animo e propose allo svedese Thorsten Nordenfeld di riprendere il progetto. Dalla collaborazione dei due, nel 1883, apparve il primo di una serie di buone imbarcazioni subacquee. Un altro passo avanti venne compiuto nel 1885 grazie all’ingegnere francese Claude Goubet che applicò, per primo, la propulsione elettrica ad un sottomarino. Le sue macchine difettavano in velocità, ma non in autonomia. Una di esse rimase immersa per ben otto ore. Il nuovo secolo vide la comparsa delle prime imbarcazioni sommergibili davvero moderne grazie a John Philip Holland, un irlandese naturalizzato americano, che utilizzò un motore a benzina per la navigazione in superficie e uno elettrico per quella in immersione.

 

Costruzioni

Dal punto di vista architettonico, indiscutibilmente, due sono state le meraviglie del XIX secolo. La prima (in ordine cronologico) è stata sicuramente il Crystal Palace edificato a Londra nel 1851 per ospitare la prima Esposizione Universale. Si sviluppava su una superficie di ben 84.000 m2 ed era costituito da elementi modulari prefabbricati in vetro e ferro, nati da una geniale intuizione del costruttore di serre Joseph Paxton. Questo tipo di architettura consentiva un montaggio ed uno smontaggio rapidi tanto che, nel 1852, l’edificio venne trasferito da Hyde Park a Sydenham Hill. Purtroppo un incendio lo distrusse nel 1936.

La seconda e più nota al grande pubblico è, ovviamente, la Tour Eiffel. Anch’essa realizzata in occasione di un’esposizione universale, quella del 1889. Pare che Gustave Eiffel, già geniale progettista del telaio interno della Statua della Libertà, si sia ispirato al tessuto spugnoso delle ossa dei mammiferi per l’ideazione del complesso sistema di tralicci metallici che costituiscono la costruzione. Il risultato è ancora oggi sotto gli occhi di tutti: 324 metri d’altezza raggiunti assemblando oltre 18.000 elementi in ferro; due milioni di rivetti; 10.000 tonnellate di peso. Un gigante che in estate, a causa della dilatazione termica, si innalza di ulteriori 15 centimetri.

La cosiddetta “architettura del ferro” ha prodotto molte altre autentiche opere d’arte, ma il palazzo londinese e la torre parigina rimangono il culmine del gusto per il bello e l’ardimentoso che ha caratterizzato l’Ottocento.

 

Conclusioni

Quale è, alla fin fine, la differenza tra ciò che ci ha offerto la tecnologia del vero XIX secolo e quanto costituisce l’iconografia dell’immaginario Steampunk? I cosplayer che rallegrano le convention di fantascienza e che hanno votato la loro creatività a questa visione alternativa dell’era vittoriana appaiono ben diversi dall’umanità rappresentata nei vecchi dagherrotipi che conserviamo in malandate scatole di latta, seppellite in polverose soffitte o sprofondate in umide cantine. Nelle immagini color seppia non vi è traccia, ad esempio, della generosa esposizione di decolté e addomi levigati che le nostre bisnonne, pena la damnatio in vita, si sarebbero ben guardate dall’ostentare. Ma, a parte il costume, colpisce l’assenza, nelle fotografie reali, di tutti quei gadget (occhialoni, corsetteria metallica, maschere antigas) che sottintenderebbero una fruizione sistematica di veicoli/velivoli a motore e il coinvolgimento in rocambolesche avventure. Lo spartiacque tra l’Ottocento real e l’Ottocento Steampunk, a mio avviso sta qui. La storia ci dice che il XIX secolo ha visto la comparsa di tecnologie innovative, quelle che hanno posto le basi per il nostro presente. Ma, a differenza di ciò che accade al giorno d’oggi, tali tecnologie non erano pervasive. Cento e più anni fa, i nostri bisnonni trascorrevano la loro esistenza facendo quasi sempre a meno delle più recenti (per loro) innovazioni. Prendevano il treno, sì e no, due volte nella vita. Se lo prendevano. Moltissime persone sono vissute senza mai vedere il mare e forse sconoscevano l’esistenza dei battelli a vapore. Gli abitanti di Londra e Parigi avranno avuto la ventura di alzare lo sguardo e scorgere un dirigibile sui tetti della loro città. Tutto qui. La quotidianità delle persone comuni, fin quasi alla Prima Guerra Mondiale, non è stata molto dissimile rispetto a quella vissuta da un contadino o un artigiano ai tempi di Molière.

Nella finzione letteraria e cinematografica, invece, i comuni cittadini hanno dimestichezza con macchine fotografiche e computer che differiscono da quelli moderni solo per l’esteso uso dell’ottone al posto della plastica. Lo Steampunk è un sogno, dunque, solo un bellissimo sogno. Ammantato di quella nostalgia per ciò che avrebbe potuto essere e non sarà mai più.

 

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