La Macchina nella Fantascienza
di Enrico Di Stefano
La Macchina è la più evidente forma moderna
di Magia che possediamo e le due sono più
strettamente correlate di quanto crediamo.
J.R.R. Tolkien
A pensarci bene, la Science Fiction è riuscita solo di rado a fare a meno della macchina. Se diamo per assodata la definizione che viene data del genere, quella comunemente accettata, secondo la quale esso prende avvio dalle ipotesi scientifiche, finiamo per dover ammettere la quasi assoluta imprescindibilità dell’artefatto meccanico nell’economia della narrazione. Soprattutto perché per noi occidentali, il più delle volte, la Scienza va a braccetto con la Tecnologia. La nostra forma mentis, pragmatica e utilitaristica, rende assai saldo il binomio. La macchina c’è sempre, nel bene e nel male. In qualche caso, soprattutto nella fantascienza sociologica, è il suo mancato funzionamento a creare la situazione critica da cui prende spunto la storia. Ne è un perfetto esempio Pump Six, un racconto del 2008 scaturito dalla penna dello statunitense Paolo Bacigalupi.
In genere, tuttavia, sono state le strabilianti possibilità di apparati avveniristici, immaginati dalle generazioni di autori che si sono succedute dal XIX secolo a oggi, a fare da pilastri a quelle straordinarie invenzioni del pensiero che hanno deliziato generazioni di lettori.
Proviamo a dare una sommaria sbirciata – perché l’inventiva umana ha creato ben più di quanto si possa descrivere in poche pagine – ai marchingegni che, da Mary Shelley in poi hanno contribuito a suscitare quel Sense of Wonder di cui, a quanto pare, abbiamo bisogno per sognare ad occhi aperti.
ASTRONAVI
Cominciamo, doverosamente, con le astronavi dato che l’esplorazione del cosmo costituisce, probabilmente, il tipo di avventura più chiamato in causa in oltre due secoli di fantascienza moderna. Sia chiaro che stiamo maneggiando una materia sterminata che ci richiede, per non perdere l’orientamento, un minimo di impostazione sistematica. Per non perderci per strada, utilizziamo appena un paio di categorie.
In linea di massima, possiamo distinguere le navi spaziali in due grandi gruppi: quelle che viaggiano a velocità inferiori alla velocità della luce e quelle che la superano.
Cominciamo dalle prime. Come fanno a volare? Di che motori dispongono? A parte pochi improbabili veicoli, come il proiettile ogivale in alluminio, sparato da un enorme cannone, che i tre esploratori Ardan, Nicholl e Barbicane usano per raggiungere la luna in “De la Terre à la Lune, trajet direct en 97 heures 20 minutes” di Giulio Verne (1865) oppure la sfera di cavorite, immaginario materiale immune alla gravità, che appare in The First Men in the Moon (1901) di H.G. Wells, nella stragrande maggioranza dei casi sfruttano la spinta di razzi, chimici o nucleari. In qualche caso utilizzano motori ionici – nella realtà già usati per la propulsione di sonde spaziali – o ad antimateria, fonte d’energia, quest’ultima, spessissimo citata ma ancora molto lontana dalle attuali possibilità tecnologiche.
Comunque, la fantascienza, quando immagina viaggi all’interno del Sistema Solare, ricorre alle astronavi subluminali. Forse la più nota tra queste è la Discovery, sulla quale si svolge la quasi totalità della storia raccontata nelle due celeberrime versioni di 2001 A Space Odissey: quella letteraria di Arthur Clarke e quella cinematografica di Stanley Kubrik (entrambe apparse nel 1968). Una delle sue principali caratteristiche, se non la più importante, è la presenza di una gravità artificiale ottenuta mediante la rotazione della sezione abitata intorno al suo asse. È un espediente tecnico più volte ripreso quando vengono descritti viaggi tra la Terra e i pianeti vicini. Ad esempio, nella interessante ma non molto fortunata serie TV statunitense Away (2020) oppure nel film The Martian (2015) di Ridley Scott. Altro elemento di gran peso è la presenza a bordo di una intelligenza artificiale, determinante nello svolgimento della trama: HAL 9000. Nella trasposizione cinematografica, forse l’opera più nota di Kubrik, il ruolo del computer, senziente e tormentato, si estrinseca in tutta la sua straordinaria drammaticità.
Altre famose astronavi, adatte solo a trasferimenti a breve raggio, sono le versatilissime Aquila, veri muli spaziali, che appaiono in Space 1999, serie televisiva di culto prodotta da Jerry Anderson nel 1975.
La fantascienza, comunque, non si è mai arresa alle difficoltà insite nel superamento delle enormi distanze tra le stelle e ha immaginato almeno un paio di modi efficaci per affrontarle, pur rispettando il limite della velocità della luce. Ad esempio, mediante le arche spaziali, dette anche Navi Generazionali.
Caratteristiche comuni a simili vascelli celesti sono le enormi dimensioni e il mantenimento al loro interno di habitat biologici perfettamente autosufficienti. Questi due elementi consentono a più generazioni successive di navigatori di affrontare viaggi della durata di secoli.
L’archetipo dell’arca spaziale è la Vanguard che in Orphans of the Sky (1941) di Robert Heinlein fa da palcoscenico alle avventure di un equipaggio che ha perso il ricordo della sua origine terrestre e che vive ignorando la natura dell’enorme artefatto che lo ospita.
Ma anche le civiltà extraterrestri costruiscono navi generazionali. Ne è un esempio celeberrimo Rama, immenso e misterioso habitat cilindrico che raggiunge il Sistema Solare nell’omonimo romanzo che Arthur Clarke ha dato alle stampe nel 1973.
Un’altra possibilità è data dal sonno criogenico. Come funziona? È semplice: un’astronave attraversa gli immensi spazi siderali per decenni o secoli mentre i passeggeri restano ibernati per tutta la durata del viaggio. È l’espediente utilizzato nel film Passengers (2016) di Morten Tyldum nel quale la colossale Avalon trasporta oltre cinquemila persone in una animazione sospesa della durata prevista di centoventi anni.
Altri autori, invece, forse insofferenti ai limiti imposti dalle leggi della fisica – o meglio da quelle che conosciamo – hanno immaginato avanzatissime tecnologie, molto di là da venire, tali da consentire i viaggi tra le stelle a velocità superluminali.
La U.S.S. Enterprise, autentica protagonista dell’universo di Star Trek, è forse la più famosa astronave della fantascienza. Realizzata in sette versioni successive, sempre più potenti e performanti, sfrutta il principio della “curvatura” cioè della deformazione dello spazio-tempo.
L’Enterprise 1701 D, ad esempio, è in grado di viaggiare a curvatura 9,6 che corrisponderebbe, secondo i dettagli tecnici su cui si accapigliano i fan, a circa duemila volte la velocità della luce.
Altrettanto famoso, il Millennium Falcon è l’astronave di Ian Solo in Star Wars di George Lucas (1977). Utilizza un generico “salto nell’iperspazio” per valicare le distanze tra le stelle, ma le sue esatte prestazioni sono solo oggetto di congetture. La celeberrima frase pronunciata dal corelliano <<È la nave che ha fatto la rotta di Kessel in meno di dodici parsec!>> non ci aiuta a farci un’idea dato che il parsec è un’unità di misura delle distanze e non della velocità. Ricordiamo la battuta perché le vanterie sono tipiche del personaggio che la pronuncia e per l’evidente incongruenza insita nell’affermazione.
Anche la Galactica, nave spaziale da battaglia che appare nelle serie Galactica (1979) e nel suo remake Battlestar Galactica (2004) è capace di eseguire “salti”. Se ne serve per sfuggire alla caccia dei Cyloni, robot che odiano gli esseri umani e che fanno parte di una società organizzata in caste.
Sia chiaro che con questa breve carrellata non abbiamo approfondito minimamente l’argomento. A stento lo abbiamo scalfito. Tutti gli appassionati sanno benissimo che attraverso la letteratura, il fumetto, il cinema, la pubblicità, i video musicali, la fantascienza moderna ha saputo immaginare migliaia di tipi di astronavi dalle più disparate caratteristiche. Redigere non solo una trattazione esauriente, ma un semplice elenco sarebbe praticamente impossibile.
ROBOT
Alzi la mano chi sentendo parlare di robot non corra col pensiero a Isaac Asimov. A lui si devono le famose Leggi della Robotica, fondamentali nella trama dei suoi racconti, scritti a partire dal 1940 e raccolti nell’antologia I, robot del 1950 e in altre successive. Le tre leggi, impresse nel cervello positronico degli automi, servono a mettere questi ultimi al totale servizio e a protezione dell’umanità rendendoli, al contempo, del tutto inoffensivi. Un concetto simile lo troviamo nella Direttiva Primaria cui debbono attenersi gli umanoidi protagonisti di The Humanoids (1948) di Jack Williamson. Evidentemente, il problema della eventuale ribellione di questi simulacri meccanici dell’essere umano si è posto quasi subito come prioritario per gli autori di fantascienza, forse perché il “complesso di Frankenstein” è sempre in agguato in un angolino nascosto delle coscienze. Per questo si è partiti premettendo la “messa in sicurezza” di questi straordinari artefatti il cui esponente più “influente”, almeno nella produzione asimoviana è R. (robot) Daneel Olivaw. Naturalmente, anche il fumetto ha trattato ampiamente il tema delle tre leggi e sono tantissimi gli automi protagonisti di storie che ne parlano. Tra i più recenti, citiamo Kevin, un robot sospettato di omicidio che appare nell’albo n° 366 (2022) di Nathan Never dal titolo Mister Perfect. Per la verità, si sono immaginati anche robot privi di sistemi di sicurezza. Ad esempio, nel romanzo Isaac Asimov's Caliban di Roger McBride Allen (1993) si raccontano le vicende di CLB 001, ovvero Calibano, un robot al quale non sono state imposte le tre leggi e pertanto dotato di libero arbitrio. Quest’ultimo, in vario modo acquisito, può portare alla totale autodeterminazione degli androidi, come avviene nel ciclo The Corporation Wars (2016) di Ken MacLeod dove ai “bot liberi” presenti su un asteroide viene addirittura offerto supporto legale per trattare con la remota Direzione Terrestre. In qualche caso, un robot svincolato da blocchi persegue un progetto di emancipazione che lo rende disposto a manipolare o, addirittura, a nuocere al creatore umano pur di conquistare la libertà. È quanto accade nel drammatico film Ex Machina (2015) di Alex Garland.
Nel XX secolo i robot sono stati un po’ il simbolo della fantascienza per il grande pubblico, tanto che non c’è bambino nato negli anni ’60 o ’70 che non abbia giocato con il suo automa di latta. Ciò è accaduto perché il cinema, più della letteratura, ha raggiunto il grande pubblico e ne ha plasmato l’immaginario. Nel Novecento, infatti, sul grande schermo sono apparse figure memorabili di robot. Ne possiamo ricordare alcune: Maria, iconica trascinatrice in Metropolis (1927) di Fritz Lang; il possente Tobor, protagonista di Tobor the Great (1954) di Lee Sholem; l’archetipico Robbie, apparso per la prima volta in Forbidden Planet (1956) di Fred Wilcox; il formidabile John, membro di una spedizione terrestre su Venere, nella pellicola sovietica Planeta Bur (1962) di Pavel Klushantsev; i leggendari D-3BO e C1-P8 in Star Wars (1977) di George Lucas.
Addirittura, desiderosi di diventare umani sono Andrew in Bicentennial Man (1999) di Chris Columbus e David, con il quale entriamo nel nuovo millennio, in A.I. (2001) di Steven Spielberg.
Va detto che quelli appena ricordati stanno dalla parte dei “buoni cinematografici”, ma ne citiamo alcuni che hanno impersonato il ruolo di macchine assassine: il pistolero Gunslinger in Westworld (1973) di Michael Crichton, il terribile Maximilian in The Black Hole (1979) di Gary Nelson e il killer di umani Terminator in The Terminator (1984) di James Cameron.
Come detto precedentemente a proposito delle astronavi, anche in questo caso la materia è talmente vasta che questa breve rassegna, lungi dall’essere esaustiva, non ha nemmeno “scrostato la vernice” dell’argomento trattato.
IMBARCAZIONI
Inutile dire che le imbarcazioni chiamate in causa dalla Sci-Fi sono soprattutto subacquee, forse perché gli abissi marini rappresentano un ambiente ostile e di difficile esplorazione come lo spazio.
Mettiamo da parte il Nautilus di cui Giulio Verne raccontò le avventure in un’epoca in cui già esistevano diversi prototipi funzionanti di imbarcazioni sommergibili – quindi facendo più anticipazione che fantascienza – e proviamo a ricordare le più iconiche macchine inseribili in questa categoria. Tanto per capirci, quello che appare nel film 20,000 Leagues Under the Sea (1954) di Richard Fleischer, ottima trasposizione cinematografica del capolavoro dello scrittore francese, è un piccolo gioiello di design ottocentesco, tra le altre cose, ma non è esattamente Sci-Fi.
Tornando al nostro amato genere, forse la più straordinaria imbarcazione mai immaginata è Gotengo, sbalorditiva macchina capace di volare, navigare sott’acqua e trivellare gli strati rocciosi per spostarsi lungo gallerie sotterranee. È l’arma vincente di un gruppo di valorosi giapponesi contro l’Impero Mu nel film Atragon (1963) del visionario Ishiro Honda. Più che un sottomarino dalle prestazioni straordinarie, è una macchina multiruolo che costituisce una categoria a sé stante.
Un po’ come lo Skydiver che in immersione può lanciare un caccia intercettore. Quest’ultimo, chiamato Sky, una volta emerso può ascendere velocemente nell’atmosfera per poi abbattere gli incursori alieni con una raffica di missili aria-aria. Compare nella serie TV britannica UFO (1970) di Gerry Anderson.
Per amor di completezza, va detto che anche la sezione che rimane immersa è armata, per la precisione con tubi lanciasiluri.
In Voyage to the Bottom of the Sea (1961) di Irwin Allen compare il sottomarino Seaview la cui prua, ampiamente finestrata, ha un inconsueto disegno che ricorda la forma di una manta.
Un altro esempio di configurazione peculiare, inoltre, lo troviamo nello scafo, diviso in sezioni globulari, del Cetacean, imbarcazione che appare nell’unica stagione del telefilm americano Man from Atlantis (1977) prodotto e ideato da Herbert Solow.
Naviga in un mare particolarissimo – i fluidi corporei umani – il Proteus, sottomarino miniaturizzato che in Fantastic Voyage (1966) di Richard Fleischer trasporta una peculiare equipe chirurgica cui viene assegnata una missione ai limiti dell’impossibile: operare “dall’interno” uno scienziato in coma.
Tornando a Gerry Anderson, va ricordato che al produttore inglese e a sua moglie Sylvia dobbiamo anche la serie Stingray (1964) imperniata sulle avventure del capitano Troy Tempest a bordo dell’agilissimo sottomarino Stingray. Nelle trentanove puntate recitano le cosiddette “marionette elettroniche” mentre imbarcazioni e ambienti sono tutti modellini, magnificamente realizzati.
Tutti questi vascelli subacquei sono in qualche modo futuribili e dotati di caratteristiche più avanzate rispetto a quelli che nella realtà solcano gli oceani. Ma in alcuni film si è fatto ricorso a imbarcazioni esistenti o esistite, ad esempio l’U-Boot con cui alcuni naufraghi raggiungono un’isola fuori dal tempo in The Land That Time Forgot (1975) di Kevin Connor. In questo, come in altri casi, è la situazione ad essere fantascientifica, non la macchina. Tra le altre imbarcazioni “non futuribili” – e quindi perfettamente in linea con quanto consentito dalla tecnologia dell’epoca di realizzazione dell’opera – ricordiamo anche la portaerei Nimitz in The Final Countdown (1980) di Don Taylor.
Oltre a quest’ultima, dove compaiono le imbarcazioni di superficie? Costituiscono una sparuta pattuglia, ma possiamo citare la Not For Hire che viene costruita dal redivivo Mark Twain per risalire il lunghissimo fiume che serpeggia attraverso il pianeta su cui si svolge il romanzo The Fabulous Riverboat (1971) di Philip José Farmer. Ha una configurazione un po’ arcaica, dato che sfrutta la propulsione di due enormi ruote a pale azionate da motori elettrici, ma riesce comunque a far scatenare l’immaginazione dei lettori.
VEICOLI TERRESTRI
I veicoli terrestri nella fantascienza sono quasi sempre corazzati perché agiscono puntualmente in scenari ricchi di insidie come zone di guerra o territori gravemente contaminati. Un tipico esempio di adeguatezza al primo scenario lo troviamo negli Shado Mobile, mezzi cingolati da ricognizione e combattimento – sono in effetti potentemente armati – che appaiono nella già citata serie televisiva UFO. Nello stesso universo compare anche il Mobile Rocket Launcher, un veicolo attrezzato per il lancio di missili antiaerei – o per meglio dire “antiufo” – che opera sulla superficie del nostro satellite a difesa di Base Luna.
Dal romanzo Damnation Alley (1969) di Roger Zelazny nel 1977 è stato tratto, abbastanza liberamente, un film dallo stesso titolo diretto da Jack Smight. Vi si racconta il viaggio attraverso gli Stati Uniti, in uno scenario post-nucleare, compiuto da un gruppo di esploratori a bordo di due formidabili veicoli chiamati Landmaster. Si tratta di macchine poderose, pesantemente corazzate ed equipaggiate per resistere a qualunque insidia batteriologica, chimica o nucleare.
Forse il veicolo terrestre più potente tra quelli immaginati dalla Science Fiction è il possente Difensore, mezzo da combattimento dotato di incredibili capacità distruttive che l’equipaggio di un’astronave terrestre in difficoltà su un pianeta alieno utilizza per esplorare il territorio circostante. Questo incredibile semovente compare nel romanzo Eden (1959) di Stanislaw Lem.
Meno devastante, ma piuttosto efficace in combattimento, è il MEV (Martian Excursion Vehicle) che nel film Thunderbirds are go (1966) di David Lane distrugge col suo cannone automatico alcune creature ostili, la cui biologia si basa sul silicio, che minacciano i membri di una spedizione umana sul pianeta rosso. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un lungometraggio girato usando modellini e marionette elettroniche, marchio di fabbrica del prolifico produttore Gerry Anderson.
Per affrontare i terreni accidentati la fantascienza predilige i mezzi cingolati, come l’enorme Sandcrawler che i misteriosi Jawa utilizzano per attraversare le desertiche distese del pianeta Tatooine in Star Wars.
Lo conferma anche il romanzo Empire of two Worlds (1972) di Barrington J. Bayley, ambientato sul mondo morto di Killibol dove sorgono numerose città popolate da umani. La polizia, per contrastare il fiorente crimine organizzato, utilizza le “vedette cingolate” veri e propri incrociatori terrestri che, con le armi di bordo, ingaggiano cruenti scontri a fuoco con mezzi similari pilotati da gangster. Può essere interessante ricordare che qualcosa del genere è realmente esistito: il pachidermico carro armato sovietico T35, noto anche come “Mostro di Leningrado”, che ha combattuto nel 1941 durante le primissime fasi dell’Operazione Barbarossa. Pur essendo impressionante per via delle dimensioni e perché irto di torrette munite di cannoni e mitragliatrici, è stato un fallimento. Infatti, rappresentando un facile bersaglio, perché troppo ingombrante e poco mobile, non è stato di grande aiuto all’Armata Rossa. L’aspetto dal sapore vagamente Steampunk non ha contribuito ad aumentarne l’efficacia.
Cambiando totalmente tipologia di veicolo, ne citiamo uno non destinato al combattimento, ma di provata robustezza. Parliamo della DeLorean che esternamente sembra un’automobile quasi normale ma che, in realtà, è una macchina del tempo. Di gran lunga la più nota e familiare agli appassionati di cinema di fantascienza (e non solo). Se ne servono nelle loro rocambolesche avventure Marty McFly ed Emmett “Doc” Brown, i protagonisti del fortunatissimo, Back to the future (1985) di Robert Zemeckis.
Altra automobile decisamente inconsueta è KITT, coprotagonista col suo guidatore della serie televisiva statunitense ideata da Glen A. Larson Knight Rider (1982), conosciuta in Italia col titolo Supercar. In questo caso la vettura non è solo caratterizzata da elevate prestazioni su strada, ma è guidata autonomamente da una intelligenza artificiale che, in caso di necessità, può portare a termine una missione anche senza la supervisione umana. Particolarissimo è il caso della gigantesca Robredo che, pur essendo una nave, avanza su numerose ruote attraversando in lungo e in largo i temibili deserti di Mondo9 come descritto nell’omonimo e fortunato romanzo (2012) di Dario Tonani. A rendere immediatamente riconoscibile e familiare agli appassionati il profilo di questa particolare creatura di ferro – termine non improprio dato che, tra le altre cose, si tratta di un veicolo senziente – hanno molto contribuito le illustrazioni che Franco Brambilla ha realizzato per le varie edizioni e che sono state raccolte in un elegante Art Book.
TALPE MECCANICHE
Questo genere di macchina non è stato molto usato dalla fantascienza e non è difficile immaginarne il motivo. Il sottosuolo è meno affascinante, meno evocativo dello spazio e delle profondità marine. Infatti, tutti i veicoli che andremo a citare, tranne forse l’ultimo, sono un po’ caduti nel dimenticatoio e quasi mai vengono chiamati in causa nelle discussioni tra appassionati.
Una cosa, però, li accomuna: l’enorme potenza che sviluppano i loro motori. Non c’è da stupirsene considerando l’altissima resistenza che una formazione rocciosa può opporre all’avanzare di qualsivoglia oggetto. Infatti, nella realtà, esistono talpe meccaniche capaci di traforare le montagne per ottenere tunnel in cui incanalare il traffico ferroviario o su gomma. Ma si tratta di mezzi piuttosto lenti. Servono mesi, se non anni, per scavare gallerie lunghe chilometri.
Invece, nella fantascienza, grazie a fonti di energia più “generose” rispetto a quella chimica comunemente usata, le velocità di spostamento di simili mezzi diventano elevatissime.
Vediamo un po’ di ricordare qualcuno di questi immaginifici mezzi di locomozione. Alla capacità di Gotengo, forse il più improbabile compendio di tecnologie fin qui descritto, di scavare gallerie abbiamo già accennato e quindi passiamo avanti.
Meno esasperate sono le caratteristiche di The Mole, uno dei veicoli che appaiono nella già citata serie TV Thunderbirds (1965). Lungo 18 metri, pesante 12 tonnellate, è propulso da un motore elettrico alimentato da un reattore a fusione nucleare che gli consente di raggiungere sottoterra la bella velocità di 80 km/h.
Sulla superficie si sposta su robusti cingoli.
Sempre nel 1965 è apparso il film Crack in the World di Andrew Marton. Qui, per raggiungere l’interno della Terra – con esiti nefasti – non si ricorre a una talpa, ma a un vero e proprio missile a testata nucleare che viene posto sulla rampa di lancio dopo essere stato ruotato di 180°, cioè con il motore rivolto al cielo e l’ogiva puntata contro un pozzo che si apre nel terreno. Neanche a dirlo, puntualmente arriva la catastrofe.
The Iron Mole, invece, compare nel film “At the Earth's Core” (1976) di Kevin Connor. Questa volta la vicenda si svolge in piena epoca vittoriana e vede due esploratori, uno scienziato e il suo finanziatore, penetrare nel sottosuolo terrestre attraverso un foro praticato in una montagna gallese. Il mezzo scende in modo incontrollato fino a raggiungere una vasta rete di gallerie popolate da mostruosi rettili volanti, i Mahar, che tengono in schiavitù una popolazione di uomini delle caverne.
Nella serie nipponica a cartoni animati Gaikin il Robot Guerriero (1976) i difensori della Terra dispongono di un vasto arsenale di veicoli adatti agli impieghi più svariati. Tra essi Bazoora, una sorta di triceratopo meccanico attrezzato, tra le altre cose, con una trivella che gli consente di scavare gallerie. Anche la possente astronave da battaglia Drago Spaziale, base operativa dei “buoni”, è capace di spostarsi nel sottosuolo. Ci riesce eseguendo una manovra speciale, la “protezione ad avvolgimento” che la trasforma in una enorme ruota fresatrice capace di tagliare gli strati rocciosi ad altissima velocità.
Davvero possente è Virgil, sorta di treno sotterraneo che nel film fantageologico The Core (2003) di Jon Amiel consente a un gruppo di intrepidi scienziati di salvare la vita sulla Terra riattivando il moto del nucleo esterno – e quindi il campo magnetico da esso generato – grazie a delle potentissime testate nucleari. Per giustificare la capacità della talpa di raggiungere il centro del pianeta le vengono date delle caratteristiche formidabili. Il suo guscio esterno è fatto di unobtainium, prodigioso materiale praticamente indistruttibile. La perforazione degli strati rocciosi non avviene mediante una trivella, come in tutti i casi precedentemente descritti, ma grazie a uno straordinario cannone, piazzato nella prua del veicolo, capace di disgregare qualsiasi ostacolo grazie a una combinazione di tecnologie dei laser e degli ultrasuoni.
Come concludere questa (per forza di cose) ridottissima esposizione dedicata alle macchine nella fantascienza? Semplicemente, invitando chi ci legge ad approfondire questo argomento tanto stimolante quanto sterminato. A questo mira l’articolo che state finendo di leggere, a pungolare la curiosità senza la pretesa di una impossibile esaustività. È vero… Ci siamo limitati a trattare sommariamente solo cinque categorie, ma avremmo potuto inserirne altre. Gli aeroplani, ad esempio. Oppure le macchine del tempo, cui si è solo accennato. Ma proprio il tempo e lo spazio, come ci insegna l’esperienza di tutti i giorni, sono a volte tiranni e sembrano voler porre frustranti limiti alla piena espressione della fantasia. Non volendoci arrendere senza combattere al loro strapotere, vi passiamo il testimone così che possiate continuare in autonomia a dilettarvi con uno dei temi più affascinanti della nostra amata Science Fiction.